Centro Dino Ferrari: biochimica e genetica, indispensabili per la ricerca scientifica

Intervista

Dario Ronchi, biotecnologo e ricercatore nel laboratorio di Biochimica e Genetica, diretto dal prof. Giacomo Pietro Comi. Il suo compito all’interno del laboratorio è diagnosticare i difetti molecolari alla base delle patologie neuromuscolari e neurodegenerative e identificare nuove mutazioni causative delle malattie dei pazienti del Centro Dino Ferrari.

 

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Ci racconti il suo percorso

Mi sono laureato nel 2006 in biotecnologie farmaceutiche. Ho svolto presso il Centro Dino Ferrari il tirocinio di tesi e successivamente ho conseguito un dottorato di ricerca, proseguendo fino ad oggi un percorso di studio nell’ambito della neurologia sperimentale e delle patologie neuromuscolari.

Ho trovato nel Centro Dino Ferrari un ambiente stimolante dove fare ricerca in modo libero ed autonomo.

Nel corso degli anni mi sono occupato di diverse linee di ricerca insieme ai colleghi del laboratorio di Biochimica e Genetica, diretto dal prof. Comi. Il nostro principale obiettivo è quello di diagnosticare i difetti molecolari alla base di un ampio numero di patologie prevalentemente neuromuscolari e neurodegenerative e di identificare nuove mutazioni causative delle malattie dei nostri pazienti. Oltre a questo, siamo impegnati a generare modelli di queste malattie prelevando dai pazienti alcune cellule che ci aiutano a riprodurre in laboratorio il difetto biochimico, a capire come questo difetto possa causare le manifestazioni cliniche nel paziente e a sviluppare terapie mirate.

Quali sono le malattie che segue più da vicino da un punto di vista della ricerca?

Da un punto di vista della ricerca, le malattie metaboliche, intendendo per metabolismo tutte quelle reazioni che forniscono energia alle nostre cellule e ai nostri tessuti. Ci occupiamo di malattie che insorgono quando due compartimenti della cellula non funzionano. Uno è il mitocondrio, la centrale energetica che fornisce energia per tutte le funzioni cellulari e l’altro è il lisosoma, che può essere considerato l’inceneritore usato per  distruggere gli aggregati e i rifiuti che si formano nel naturale processo di invecchiamento o quando gli enzimi che demoliscono queste sostanze non sono prodotti o non funzionano, come avviene in alcune malattie genetiche. Dato che le cellule muscolari e i neuroni hanno bisogno di molta energia e sono molto sensibili all’accumulo di aggregati, non è un caso che le patologie mitocondriali e lisosomiali siano di interesse prevalentemente neurologico sebbene altri tessuti e organi possano comunque essere colpiti, in ogni fase della vita.

Un altro aspetto importante è la capacità rigenerativa limitata (muscolo) o assente (neuroni) di questi tessuti “bersaglio” che impedisce quel ricambio cellulare che invece osserviamo, ad esempio, nella pelle. Per il muscolo e i neuroni questo “salvagente” non esiste e quindi la disfunzione energetica o lisosomiale provoca la morte prematura di queste cellule e l’insorgere di patologie pediatriche e dell’adulto..

Una vera e propria sfida nell’analisi di questi difetti è il fatto che mutazioni nello stesso gene possono produrre fenotipi molto diversi con forme pediatriche, spesso letali, e forme adulte che danno quadri meno gravi in termini di esordio e progressione. Il capire come mai, a partire dallo stesso gene, ci sono esiti così differenti, è una delle sfide che affrontiamo con i modelli e cercando di comprendere gli aspetti genetici e biochimici peculiari di ogni paziente.

Quali sono i progetti specifici di ricerca su cui siete ora concentrati?

Da una parte c’è la diagnosi genetica. Fare ricerca in questo campo vuol dire analizzare le famiglie e la loro configurazione genetica studiando sia i soggetti affetti che i non affetti. Oggi abbiamo la possibilità di sequenziare contemporaneamente tutti i geni presenti nel DNA. In questo modo non dobbiamo più analizzare un gene alla volta, un processo che spesso ritardava la diagnosi molecolare. Oggi analizziamo tutti i geni insieme e da questa grande complessità (generare i dati è facile ma analizzarli purtroppo no) cerchiamo di capire se c’è un difetto in un gene noto oppure in un nuovo gene.

E’ importante arrivare rapidamente alla diagnosi molecolare: per i nuovi geni è il punto di partenza di tutto quello che c’è dopo: il counselling genetico, i modelli cellulari e animali e le terapie sperimentali. La terapia di una malattia genetica è infatti possibile solo se conosciamo il gene coinvolto.

I primi successi che abbiamo oggi nell’ambito delle terapie delle malattie genetiche derivano dalla conoscenza dei relativi geni che abbiamo acquisito negli ultimi 30 anni: questo insieme di informazioni ci ha permesso di capire in modo molto preciso (lettera per lettera del DNA) come quel gene funziona.

Accanto a ciò, c’è la diagnostica dei geni già noti: un compito importante perché l’accesso ad alcune terapie che sono (o saranno) disponibili dipende dal fatto che quella malattia è dovuta ad una specifica mutazione all’interno di uno specifico gene. Anche il tempo per la diagnosi gioca un ruolo importante: alcuni trattamenti devono iniziare il prima possibile per evitare che si verifichino danni irreversibili. Per questo anticipare la diagnosi genetica (fino al caso della diagnosi prenatale), è fondamentale. Oggi, per alcune malattie genetiche, la diagnosi rapida è il primo passo per affrontare quelle che si configura come una “urgenza” neurologica.

Faccio un esempio. La settimana scorsa in laboratorio abbiamo verificato il caso di un neonato con sospetto di Glicogenosi di tipo 2 (la Malattia di Pompe), una patologia muscolare e cardiaca che aveva già portato alla morte due fratelli del paziente nel loro primo anno di vita. Abbiamo analizzato il gene responsabile di questa patologia il giorno stesso della nascita del bambino: la diagnosi era fortunatamente negativa. In caso di positività avremmo potuto subito iniziare il trattamento con un farmaco (un enzima prodotto con tecniche di ingegneria genetica)che oggi è disponibile e che gli avrebbe potuto salvare la vita.

Accelerare la diagnosi è una necessità importante. Andiamo verso uno scenario in cui molte malattie genetiche potranno essere diagnosticate prima dell’insorgere dei sintomi, anche attraverso programmi di screening neonatali. Per alcune di queste patologie, la diagnosi precoce consentirà un rapido e risolutivo accesso alle terapie.

Il suo lavoro comprende anche il contatto con la famiglia che ha queste problematiche. Quali sono i punti critici di questo rapporto?

Per chi lavora in laboratorio il contatto diretto con il paziente è limitato ma non per questo meno importante rispetto ai colleghi clinici. Sappiamo che dovremo sempre lavorare al meglio delle nostre capacità, in alcuni casi in condizioni di urgenza, e questo ci spinge ad estendere la giornata (o la settimana) di lavoro.  Allo stesso modo dato che queste diagnosi spesso richiedono analisi biochimiche e molecolari di tessuti o cellule prelevati dai pazienti, la consapevolezza di maneggiare campioni così preziosi ci responsabilizza.

I pazienti o i genitori nel caso dei pazienti più piccoli ci aiutano moltissimo: sanno  che solo affrontando o dando il consenso ad un percorso di esami complicati, qualche volta invasivi, sarà possibile accelerare il percorso verso una diagnosi. Capire la malattia significa terminare un cammino diagnostico magari iniziato anni prima e che ha coinvolto varie strutture. Allo stesso tempo vuol dire iniziare la somministrazione di farmaci per alleviare i sintomi e, nei casi più fortunati, per ottenere un beneficio permanente.  Per i genitori significa anche entrare in contatto con altri papà e mamme con storie simili alla loro o accedere a trial clinici che indagano oggi le terapie del domani.

Di cosa avete più bisogno per il Centro e per la Ricerca?

La dotazione strumentale che abbiamo è abbastanza buona ma le tecnologie diventano più sofisticate e alcune macchine conoscono una rapida obsolescenza. Un problema più grande è la burocrazia che richiede lunghi tempi e procedure complicate per ottenere i reagenti di cui abbiamo bisogno, pur avendo i soldi a disposizione. In questo il il lavoro dell’Associazione e le donazioni ci facilitano, perché i fondi raccolti  sono più facilmente utilizzabili.

I finanziamenti sono fondamentali anche per sostenere i giovani ricercatori. Produrre ricerca di qualità e puntare su giovani promettenti è molto importante. Ci sono ragazzi bravissimi che in questo momento lavorano in laboratorio, studiano e si perfezionano. Stiamo facendo quanto possiamo per tenerli nella nostra struttura, ma se non saranno le condizioni per sostenerli sanno costretti ad andare altrove perché sono fortemente motivati a fare ricerca. Investiamo anni di formazione sulle persone e poi rischiamo che tutto quello che hanno imparato vada a vantaggio di altri laboratori o dell’industria, costringendoci a ripartire da zero con altre persone.

 

 

Dario Ronchi, biotecnologo e ricercatore

18 dicembre 2017

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